Argomenti a favore della speranza: l’idea di un’organizzazione senza scopo di lucro in un’epoca frammentata

Un messaggio del Presidente

La speranza, definita in termini generali come uno stato d’animo ottimista basato sull’aspettativa di risultati positivi rispetto agli eventi e alle circostanze della propria vita o del mondo in generale, spesso ci ispira a modificare le nostre azioni e il nostro posto nel mondo in modo da ottenere un risultato diverso e più salutare a fronte delle principali sfide negative. In questo senso, la speranza rappresenta una sofisticata strategia cognitiva, non già una semplice emozione o uno stato d’animo illusorio.

Un altro modo per formulare lo stratagemma della speranza è quello di definirlo come una narrazione, spesso meticolosamente costruita. Come per ogni narrazione, gli effetti trasformativi della speranza richiedono la percezione di una continuità temporale: attingere all’esperienza e alla conoscenza (avvenute nel passato) e ricostituirle in modo selettivo come una serie di passi e di iterazioni mirati (eseguiti in un presente progressivo) in modo da poter essere poi applicate in modo immaginifico a una realtà successiva (futuro) e, in caso di successo, istanziare quel futuro. La percezione che esista uno spazio-tempo a quattro dimensioni soggetto al nostro intervento è una condizione psicologica necessaria alla pratica della speranza. Ma questa percezione di un tempo fluido è violentemente distorta da una serie di fenomeni che possono far presagire la nostra fine collettiva.

Le contro-narrazioni che ostacolano e vanificano deliberatamente un ambiente cognitivo favorevole alla speranza nascono tutte dall’ingegno umano e inibiscono la coerenza e la continuità necessarie a un impegno rigoroso, sostenuto e condiviso nei confronti delle sfide globali che ci si presentano. La disinformazione calcolata, le bugie, le idee cospiratorie, il dubbio e la negazione strumentalizzati sono macchinazioni pervasive. Spesso riducono notevolmente la capacità di reazione alle diverse crisi e contribuiscono in modo preponderante all’equivalente immaginario della tenuta in ostaggio del tempo.

Più concretamente, esistono due fenomeni ben organizzati e riccamente finanziati che contribuiscono a inibire la pratica della speranza attraverso l’eccessiva frammentazione e l’oscuramento del contesto. Il contesto è un aspetto chiave per la comprensione della conoscenza; il contesto racchiude le circostanze che fanno da sfondo a un evento, a un’affermazione o a un’idea, e può fornire i termini attraverso i quali determinati elementi del nostro mondo possono essere pienamente compresi e valutati. La comprensione è di per sé una relazione tra chi conosce e un oggetto o un fenomeno osservato. Se un oggetto è stato “estrapolato dal contesto” significa che è stato rimosso dalle circostanze che lo avvolgono, il che può distorcere il suo significato e cancellare fatti e indizi necessari a adottare un comportamento intelligente. E proprio tale decontestualizzazione è una caratteristica comune della disinformazione e delle varie declinazioni dei più diffusi media culturali.

Il primo fenomeno è quello dei social media: i problemi legati a questi network sono ben noti e ampiamente documentati. Sono media che incoraggiano le formazioni tribali, sono riduttivi nella semplicità dell’impegno sociale (mi piace) e in alcuni casi sono essi stessi effimeri, con immagini che in un lasso di tempo piuttosto breve svaniscono senza lasciare traccia. La brevità d’espressione, basata su scambi di informazioni molto concisi, promuove il pensiero a breve termine e rimuove il contesto da molti scambi, se non quasi tutti. Il ricorso a singole immagini per esprimere i pensieri, l’anonimato e l’uso di dichiarazioni performative in contrapposizione a un dialogo o a una conversazione sostanziale, simboleggiano una sorta di snaturamento della formazione di un pensiero sfumato e in costante evoluzione. Gli ambienti autoreferenziali degli algoritmi di “raccomandazione” strettamente mirati incapsulano il nostro senso di noi stessi e la nostra azione, provocando una sorta di autocompiacimento nell’inazione.

Un’altra fonte inesauribile di frammentazione e disconnessione è la diffusione, terribilmente redditizia e a quanto pare onnipresente, di notizie e avvenimenti attuali. I metodi di trasmissione delle notizie sono oggetto di indagine e di preoccupazione ormai da decenni. Le pubblicità, i social media, la copertura 24 ore su 24 di titoli spesso ripetuti, l’infinito susseguirsi di testi in sovrimpressione – si pensi alle notifiche a comparsa delle notizie, alle notizie ultim’ora mozzafiato, alle immagini lampeggianti e all’incessante ricorso al dramma scadente e riduttivo di forze e antitesi in competizione (spesso fabbricate appositamente per ottenere attenzione e coinvolgimento emotivo) – annientano il quadro causale che ci circonda. Tale fluttuazione pixelata di frammenti, abbreviazioni e ritagli disgrega il nostro mondo, anziché spiegarlo, e oscura in modo funzionale la profondità e la complessità necessarie alla comprensione dei pericoli che stiamo correndo.

Esiste anche un terzo esempio di modelli narrativi che possono ostacolare lo sviluppo di contesti più ampi e di interconnessioni più profonde, più benevolo forse, ma senz’altro significativo: le narrazioni tradizionali nell’ambito dell’istruzione superiore. In contrasto con i social media e i telegiornali, classificati come cultura pop la cui influenza negativa è più facilmente intuibile, le università sono spesso considerate un baluardo contro la palese frammentazione dei social media e dell’attuale diffusione delle notizie. Ma questo assunto dovrebbe essere sfumato.

Gran parte del problema legato alle narrazioni prodotte nell’ambito dell’istruzione superiore può essere ricondotto a quella che chiamiamo l’aritmetica del prestigio. Queste narrazioni non comprendono solo gli artefatti della produzione (libri, articoli di giornale, saggi) ma anche le storie utilizzate per la valorizzazione e il riconoscimento di coloro che lavorano all’interno di questa cultura. Per quanto riguarda l’aspetto pubblico delle istituzioni, le regole del branding impongono loro di mettere in risalto la propria storia e la propria missione specifiche, spesso idiosincratiche. Le scuole si contendono aggressivamente studenti, finanziamenti, docenti e prestigio sulla base di questa unicità di maniera, ostacolando la collaborazione e la cooperazione interistituzionale. Internamente, la forza delle loro risorse umane e intellettuali si avvale di un conformismo pervasivo. Le varie discipline adottano epistemologie che supportano le rispettive grammatiche, vocabolari, metodologie di ricerca e convenzioni. La crescita professionale all’interno di queste discipline dipende spesso dalla padronanza di giochi di parole specializzati e di convenzioni in stile corporativo, il che peraltro impedisce la ricerca interdisciplinare e transdisciplinare, considerata sempre più essenziale per affrontare i complessi problemi esistenziali.

L’organizzazione della conoscenza accademica atomizza la nostra comprensione del mondo, al punto che una collaborazione più ampia e una ricerca più poliedrica – ovvero un’azione umana fortemente polivalente – possono risultarne significativamente inibite.

Una delle sfide più minacciose e complesse che ci troviamo ad affrontare al giorno d’oggi è il cambiamento climatico. La storia del cambiamento climatico è di per sé una grande narrazione che ha al proprio centro un dilemma. Questa catastrofe ambientale senza precedenti è infatti il prodotto di un’attività umana colta e avanzata. Le nostre prodezze ingegneristiche, i nostri ingegnosi strumenti economici, il recupero e la raffinazione di energie dormienti e i nostri sofisticati algoritmi sono il prologo della nostra rovina.

Il mondo è stato terraformato dalle nostre visioni, formulazioni e idee, dai nostri valori e dalle nostre aspirazioni. Il pianeta, ora in fermento, è un’esposizione della mente umana resa manifesta. Abbiamo concepito l’esistenza di questo mondo e creato una cascata di fenomeni interconnessi che si sono coalizzati per ustionarci, annegarci e soffocarci. È dolorosamente difficile da comprendere, ma stiamo costruendo la nostra rovina.

La perdita del nostro patrimonio culturale collettivo preannunciata da eventi climatici sempre più violenti e stocastici sta diventando un punto focale del lavoro del CLIR. Questa priorità si basa sulla storia stessa del CLIR, che si occupa di preservare e rendere accessibili le preziose risorse della nostra eredità collettiva: come possiamo salvaguardare il nostro patrimonio culturale, materiale o effimero che sia, e gestirlo in modo che le generazioni future possano a loro volta adottarlo e usufruirne?

Alla luce della complessità del cambiamento climatico, ci aspettiamo che i nostri progetti diventino più sfaccettati, più a lungo termine, più internazionali e più ampiamente collaborativi. In questo modello la sostenibilità e le infrastrutture sono intese come funzioni simbiotiche e non separabili, nonché basate sulla società. La durabilità dipende in gran parte dalle scelte comportamentali degli esseri umani, in opposizione al semplice aumento del flusso di denaro e delle capacità tecniche. Il tempo e l’investimento per un maggiore e sistematico impegno sociale e intellettuale trasforma questi sforzi affinché diventino non tanto un progetto in senso tradizionale, quanto piuttosto il catalizzatore per un coinvolgimento progressivo. Abbiamo chiamato questo metodo “sostenibilità generativa”.

“Dare vita alla conoscenza” è l’espressione che racchiude l’essenza del lavoro del CLIR. Si tratta di una frase con diversi livelli di significato, che indica l’umanità con la quale interagiamo attraverso i nostri progetti – quelli che danno priorità, progettano e realizzano gli obiettivi della nostra ridistribuzione dei fondi. Ma si riferisce anche alla vita della mente necessaria a far perdurare questi progetti e alle risorse intellettuali che essi generano. Tutto il lavoro del CLIR è volto a migliorare le capacità di pianificazione e organizzazione, di prendere decisioni, di adattarsi ai cambiamenti, di valutare l’importanza delle risorse di informazione di nuova scoperta e di applicare tali conoscenze. Il CLIR è un’organizzazione, straordinariamente vivace, della memoria.

Grazie a questa maggiore capacità possiamo lavorare insieme in contesti più accurati e sofisticati, dai quali nascono nuove storie. Il fulcro del contributo del CLIR al bene comune sono le narrazioni che vengono create attraverso scoperte avvenute cercando risorse precedentemente nascoste; sono le nuove intuizioni derivanti da oggetti culturali restaurati perché non si deteriorassero in silenzio; sono le celebrazioni nate dall’accesso pubblico agli archivi comunitari; sono i rapporti di nuove comunità sorte attorno all’esigenza di salvare il proprio patrimonio dalle devastazioni del cambiamento climatico. In ognuno di questi casi il CLIR offre l’opportunità di un contesto più accogliente che favorisce una comprensione più profonda.

L’applicazione di nuove capacità è essa stessa una storia. Una storia che richiede sensibilità per il flusso coerente del tempo, soggetto all’azione umana, oltre che un’audace contrapposizione alle distrazioni divisive e al rumore ottuso del nostro malcontento frammentato, andando a evocare segnali di speranza più potenti.

In memoria di
Clifford Lynch
Attingendo alla sua saggezza era sempre possibile trovare la speranza.

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